Gli ebrei fascisti e il mito dell’antisemitismo obbligato
La questione dell’adesione di ebrei al fascismo italiano prima del 1938 torna periodicamente a impegnare le pagine di quotidiani e settimanali. Quindi essa suscita interesse. Questo può essere un vero e proprio interesse per la storia, quando ad esempio si sviluppa in interrogativi tipo: come può accadere che un tizio abbracci un’ideologia che poi lo perseguiterà, e perché?; oppure: come può accadere che un movimento politico perseguiti propri aderenti non caratterizzatisi come oppositori politici interni, e perché? Altre volte invece tale interesse è indice di disinteresse per la storia, quando sottopone a un esame morboso la vittima (e solo essa), quando utilizza la vicenda di quel perseguitato come clava sostitutiva di pacate analisi storiografiche, quando parte con l’intenzione di concludere: beh, se l’era cercata. Questi approcci possono anche presentarsi intrecciati e, talora, intersecati e modificati o dalla subordinazione dell’analisi storica alla solidarietà per l’ebreo al dunque perseguitato, o dalle più varie impostazioni personali: fascisti (pre-, post-, o semplici) che si fregano le mani perché maggiore è il numero noto degli italiani ieri fascisti meglio è per il fascismo di ieri e per i fascisti di oggi, cattolici che ritengono di dover chiedersi se si debba o no “rimproverare” questa o quell’azione individuale avente valenza storica, storici che non desiderano essere storici dei propri colleghi storici, antifascisti incapaci di rapportarsi a perseguitati razziali che, prima, erano stati fascisti, italiani che temono gli scavi nel passato perché anch’essi ne hanno uno, ecc. Si deve riconoscere che il quadro è ben complicato.
Poiché l’odierno interesse suscitato dal serio articolo su Arnaldo Momigliano pubblicato da Giorgio Fabre sull’ultimo fascicolo di “Quaderni di storia” sembra destinato a continuare, e data la non brillantezza del dibattito similare svoltosi l’anno scorso sulla “Stampa” e qualche altro quotidiano, mi pare non inutile proporre al dibattito già avviato (e sui cui singoli contributi non entro) alcune necessarie messe a fuoco della questione degli ebrei fascisti e dei suoi risvolti.
Il primo fatto saliente è che la loro esistenza e il loro operato come gruppo iniziarono a essere indagati storiograficamente in una pubblicazione del 1961 curata dalla Federazione Giovanile Ebraica d’Italia e dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, con un saggio (non sempre condivisibile) di Guido Valabrega concernente un periodico edito a Torino da ebrei fascisti. A pochi lustri dalla fine della guerra e della Shoah, si era sviluppato in un gruppo di ebrei giovani e/o studiosi il desiderio o il vero e proprio bisogno di trovare una risposta alla prima delle domande menzionate all’inizio di questo articolo. Per far ciò essi ruppero i silenzi causati prima dalla “guerra civile” svoltasi nelle famiglie ebraiche italiane fino al 1938 e poi dalle persecuzioni dei diritti e delle vite. E misero quindi in luce l’esistenza, in parte degli ebrei italiani degli anni Trenta, di una “cosa” che poi ci siamo abituati a denominare “consenso al fascismo”. Sono quindi ormai quarant’anni che gli studiosi di storia ebraica parlano dei “bandieristi” (la rivista in questione si chiamava “La nostra bandiera”), li studiano, li menzionano; il reperimento di nuovi documenti su uno di loro costituisce quindi, relativamente agli studi ebraici, un contributo utile e non un evento scandaloso. Anzi è forse giunto il momento di rimarcare che l’acquisizione storiografica del concetto di “consenso al fascismo” relativamente all’insieme degli italiani (ebrei e non-ebrei) si è invece sviluppata con maggiore lentezza e tra profondi contrasti.
Il secondo punto concerne il fatto dell’iscrizione di ebrei al Partito nazionale fascista (fino al 1938). Per la fotografia, tale fatto documenta il non antisemitismo del partito (fino al 1938); per la storiografia, tale fatto attesta con immediatezza solo che fino al 1938 il Pnf non era ufficialmente antisemita, posponendo l’interpretazione di “ufficialmente” alla soluzione dei rilevanti interrogativi attivati dalle parole “fino al 1938”. Il maggiore di essi può essere così sintetizzato: il fascismo divenne un regime antisemita con un repentino cambio di fotogramma o con un percorso processuale? La prima risposta conduce in genere a concludere che le leggi antiebraiche furono imposte al Regno d’Italia dal Terzo Reich, eventualità peraltro esclusa sin dal 1961 da Meir Michaelis e da Renzo De Felice e oggi — se non erro — priva di sostenitori al di fuori degli scompartimenti dei treni a lunga percorrenza. Rimane quindi solo la seconda risposta, la quale pure attiva molti interrogativi di grande rilevanza. Per motivi di spazio, di essi qui interessa solo quello concernente il fatto se tale processualità ebbe o no effetti diretti o indiretti sugli ebrei fascisti. Ebbene, a mio parere essi proprio nel corso degli anni Trenta captarono in qualche misura e in qualche modo il tortuoso deterioramento della propria condizione (da essi non voluto, e quindi imposto, e quindi persecutorio), rispondendo o con la fuoriuscita dall’ebraismo (particolarmente all’inizio del decennio e nell’immediata vigilia delle leggi antiebraiche) o col rafforzamento della propria caratterizzazione fascista dentro l’ebraismo (“La nostra bandiera” fu fondata nel 1934). Si ha così il fatto che proprio lo studio degli ebrei fascisti (fino al 1938) ci fornisce elementi per comprendere meglio il processo fascista che sfociò nelle leggi antiebraiche del 1938; al contrario, pochi o punti elementi utili a questo fine riusciamo a trarre dallo studio degli ebrei da sempre antifascisti (come lo storico Nello Rosselli, ucciso nel 1937).
Peraltro, proprio lo studio degli ebrei fascisti pone nuovi rilevanti interrogativi, come quello se l’insistenza dei “bandieristi” nell’affermare l’irriducibilità della differenza tra Berlino e Roma abbia potuto contribuire alla costruzione del mito di un fascismo antisemita contro la propria volontà. Si tratta di un interrogativo “intrigante” e assai delicato, costituente quindi un ulteriore motivo per affrontare con estrema laicità tutte le questioni qui delineate.
Infine va detto che la parte politica della biografia (fino al 1938) di Arnaldo Momigliano non interessa solo per quanto sin qui detto. Il fatto è che, come ho iniziato ad accennare nel mio libro Gli ebrei nell’Italia fascista (2000) e come ricorda anche Fabre, proprio Momigliano, proprio nel 1933, ebbe a scrivere alcune importanti considerazioni sulla “nazionalizzazione” parallela e convergente degli ebrei italiani e dei non-ebrei italiani, considerazioni divenute relativamente note per via della riproposizione fattane da Gramsci. Ebbene, quella pagina di Momigliano, oggi assai citata, deve finalmente essere contestualizzata nella sua biografia e nel suo sistema di riflessioni. Confrontandoci su questo tema forse faremo un passo storiografico in avanti.