Gino Bartali e Mario Finzi (2024)
Un recente articolo torna a sostenere che durante la Repubblica Sociale Italiana il ciclista Gino Bartali trasportò in bicicletta da Assisi a Firenze carte di identità falsificate per gli ebrei perseguitati, su richiesta delle autorità ecclesiastiche fiorentine: Sergio Della Pergola, Sui saliscendi della memoria: Gino Bartali fra mito e storia, “La rassegna mensile di Israel”, vol. 87, n. 3 (ottobre-dicembre 2021; ma stampato e distribuito agli inizi del 2024), pp. 93-138.
Per sostenere ciò, l’autore Sergio Della Pergola polemizza acremente con me e con il mio articolo Michele Sarfatti, I procacciatori di carte d’identità false per gli ebrei a Firenze: Mario Finzi, Giorgio Nissim, don Leto Casini, Anna Maria Enriques Agnoletti e i loro compagni, in “La rassegna mensile di Israel”, vol. 85, n. 3 (settembre-dicembre 2019), pp. 119-132. Inoltre pubblica alcuni scritti memorialistici degli ultimi decenni, che asseriscono che quel trasporto avvenne o dovrebbe essere avvenuto. Infine nel paragrafo conclusivo afferma: “Se l’obiettivo dello storico è quello di aiutare a chiarire i fatti avvenuti e a conservarne la memoria, la stessa descrizione dei fatti non è quasi mai possibile senza l’apporto della memoria delle persone informate direttamente dell’accaduto. Una storiografia priva dell’apporto della memoria è fatalmente mutilata di un elemento che, se vagliato e controllato attentamente, può apportare un contributo decisivo alla documentazione e all’interpretazione. […] Sia pure con molta cautela, va detto che certe espressioni di critica alla memoria portano materiali utili alla scuola di pensiero riduzionista o anche negazionista. Lo storico in questo caso, rischia di trasformarsi in un secondino della memoria storica” (pp. 127-128, 130).
A me fu insegnato che (in sintesi) il compito di uno storico è indagare, ricostruire e interpretare, e che in ciascuna delle tre fasi è necessario riflettere, porsi domande, contestualizzare e confrontare. E tutto ciò con un continuo intenso utilizzo dell’approccio critico. Non mi fu detto che occorreva usare anche candeggina e conservanti. Né mi fu spiegato che la categoria documentale ics era in quanto tale più o meno carceriera della categoria documentale ipsilon.
Comunque, partiamo dal punto che Sergio Della Pergola pone al centro del suo scritto: la memoria. E teniamo le mani ben strette sul volante dell’approccio storiografico. E concentriamoci sui maggiori protagonisti di quell’insieme di vicende: un ebreo soccorritore di ebrei e gli incaricati dai vescovi di Assisi e Firenze di coordinare l’assistenza agli ebrei.
Il primo si chiamava Mario Finzi, operava a Bologna nella Delasem, è stato arrestato e deportato ad Auschwitz-Birkenau, ed è morto lì poco dopo la liberazione del campo. Egli pertanto non ha potuto testimoniare, dopo la guerra. La sua “memoria” (ma io ritengo più deontologico dire: la nostra conoscenza della sua storia) poggia perciò sui documenti eventualmente esistenti (tenendo però presente che la Delasem dopo l’8 settembre era clandestina) e sulle eventuali testimonianze di altri. Ebbene, gli storici conoscono alcuni brevi brani, del primo e del secondo tipo; si tratta di una situazione non frequente: altre persone, in assenza di ciò, sono state private, assieme alla loro vita, anche della loro storia.
Dunque. Un libro in sua “memoria” pubblicato nel 1967 riporta una lettera che egli scrisse nel gennaio 1944, da Firenze, a un’amica molto cara. Essa contiene la seguente frase: “Qui ho conosciuto degli uomini di un coraggio, di una abnegazione meravigliosi: veri cristiani, veri apostoli” (Mario Finzi. Lettere a un amico – Brani musicali – Ricordi e testimonianze, a cura di Fabio Fano, Alfa, Bologna 1967, pp. 36-37). Nell’esemplare del volume che la madre Ebe Castelfranchi Finzi donò nel febbraio 1981 all’ex rabbino capo di Milano Elia Kopciowski la frase sopra riportata è corredata della seguente nota manoscritta: “Erano, questi, eroici sacerdoti, che – incuranti del pericolo – aiutavano Mario a salvare i suoi correligionari nascondendoli nei conventi (nota della mamma)” (copia del volume con dedica e note, conservata in Archivio storico della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Fondo Vicissitudini dei singoli, Serie I, b. 9, fasc. 250).
Secondo me, il “qui” della lettera è la città da cui scrive: Firenze. Riguardo a questi due brani, va detto che in realtà fu Mario Finzi ad aiutare i sacerdoti fiorentini e che in realtà fu lui ad agire con particolare coraggio e abnegazione (data la caccia all’ebreo); ma ciò non toglie che figlio e madre stiano parlando di una collaborazione tra Mario Finzi e alcuni sacerdoti nell’assistenza agli ebrei. Lui fu arrestato il 31 marzo 1944 a Bologna.
Come è ricostruito in molti studi e nel mio articolo sopra citato, la curia di Firenze profuse un notevole impegno nell’assistenza agli ebrei, durante la Repubblica sociale italiana e l’occupazione tedesca. In una “memoria” abbozzata nel 1972 e completata nel 1986, il parroco fiorentino don Leto Casini ha scritto che nell’ottobre 1943 fu convocato dall’arcivescovo Elia Dalla Costa, che “dopo avermi esposto la tragica situazione degli Ebrei stranieri [profughi a Firenze], non potendolo fare lui personalmente per ovvie ragioni, mi chiese se ero disposto a mettermi a disposizione di un comitato per la ricerca di alloggi, procurare viveri, carte di identità – naturalmente false”. Casini quindi fu incaricato di organizzare tutti gli aspetti dell’assistenza (sappiamo che il suo principale riferimento in curia era monsignor Giacomo Meneghello, segretario di Dalla Costa). Proseguendo, il parroco ha scritto: “Per le carte di identità che dovevano far diventare italiani tanti Polacchi, Russi, Tedeschi, Ungheresi ecc. provvedeva una tipografia clandestina di Bologna. Io mi facevo dare le fotografie formato tessera e le consegnavo ad un giovane Ebreo di Bologna il quale faceva la spola, quasi ogni giorno, tra me e la suddetta tipografia. […] Il fattorino veramente eccezionale, a cui ho accennato era Mario Finzi”. Casini racconta inoltre che al momento del suo arresto, avvenuto il 26 novembre 1943, in tasca aveva “venticinque foto [di ebrei] consegnatemi due minuti prima e che avrei dovuto trasmettere per altre e tante carte d’identità, a Bologna, la sera stessa” (Leto Casini, Ricordi di un vecchio prete, Firenze, Giuntina 1986, pp. 49-51, 53. Per i primi memoriali di Leto Casini, cfr. Francesca Cavarocchi, Elena Mazzini, I luoghi di rifugio, in Francesca Cavarocchi, Elena Mazzini (a cura di), La Chiesa fiorentina e il soccorso agli ebrei. Luoghi, istituzioni, percorsi (1943-1944), Viella, Roma 2018, pp. 311-313; cfr. anche Leto Casini, Una testimonianza, “Bollettino dell’“Amicizia Ebraico-Cristiana” di Firenze”, a. XVII, n. 3-4 (luglio-dicembre 1982), pp. 34-35).
Casini quindi parla della collaborazione tra Mario Finzi e lui stesso (e per estensione, i sacerdoti da lui coordinati) nell’assistenza agli ebrei, a Firenze. La lettera e le due “memorie” (tutte e tre documenti, per noi storici) ci parlano di un’unica vicenda, da due diversi angoli visuali.
L’incaricato dell’arcivescovo di Firenze non menziona un rifornimento di carte di identità falsificate su Assisi (né menziona Bartali). Una buona indagine storiografica richiede però una verifica nella città umbra. Ora si da il caso che anche per Assisi disponiamo di affermazioni (ossia “memorie”, cioè documenti) di colui che fu incaricato dal vescovo locale Giuseppe Placido Nicolini di organizzare l’assistenza agli ebrei della città: don Aldo Brunacci, canonico della cattedrale. Ebbene, questi ha più volte detto che quel trasporto e quel ruolo di Bartali non vi furono. Oltre alle affermazioni che ho già riportato nel mio articolo sopra citato, qui si può aggiungere una sua intervista molto cruda, rilasciata nel 1989 al quotidiano “La nazione” (nella quale menziona il libro di Alexander Ramati, The Assisi underground. The Priests who rescued Jews. As told by Padre Rufino Niccacci, New York, Stein and Day 1978; Alexander Ramati as told by Padre Rufino Niccacci, While the Pope Kept Silent. Assisi and the Nazi Occupation, London, Allen and Unwin 1978 (Alexander Ramati, Assisi clandestina. Assisi e l’occupazione nazista secondo il racconto di p. Rufino Niccacci, Santa Maria degli Angeli (Assisi), Porziuncola 1981).
Nell’intervista, l’intervistatore premette (con una piccola confusione finale tra Assisi e Firenze): “Quando ‘Assisi clandestina’ fu diffusa nelle librerie, fece chiasso, fra i molti episodi narrati, quello che rievocava le gesta di Gino Bartali, il campione del ciclismo, descritto alle prese con segrete missioni assegnategli dal vescovo di Firenze. Bartali avrebbe portato in Umbria, nascoste nel telaio della bicicletta, le fotografie dei rifugiati che ad Assisi attendevano in ansia di potere entrare in possesso di documenti falsi.” E poi riporta tra virgolette la risposta di Brunacci: “In quel periodo Bartali non s’è mai visto ad Assisi”. Successivamente l’intervistatore gli chiede se la curia di Assisi fosse stata una “succursale operativa” di quella di Firenze. E Brunacci, sempre tra virgolette: “Tutto inventato – sostiene –, a Firenze hanno operato per conto loro, quanto e più che ad Assisi. Monsignor Della Costa non aveva certo bisogno delle nostre carte di identità. Intervennero solo rapporti privatissimi tra le segreterie dei due vescovadi per il trasferimento in Umbria di una famiglia di ebrei polacchi” (Gianfranco Ricci, Gli anni eroici e clandestini vissuti da Assisi. Ebrei questa è la verità. Furono salvate centinaia di vite. Il racconto di don Aldo Brunacci, “La nazione”, 5 ottobre 1989).
Un’intervista può essere considerata una forma di “memoria”, ed è anch’essa un documento. Certo, lo storico deve utilizzarla con cautele apposite; ad esempio è possibile che l’intervistatore abbia travisato l’intervistato, così come è possibile che l’intervistatore sia stato capace di far emergere pensieri che l’intervistato, di suo, avrebbe esitato a mettere per iscritto. Comunque, il succo delle risposte di Brunacci è netto; nei giorni seguenti “La nazione” non pubblicò rettifiche; e le parole dette dall’incaricato del vescovo di Assisi collimano con le altre sue dichiarazioni.
Queste “parole scritte” (lettere, “memorie”, memoriali, interviste, comunque documenti) sono di un ebreo, di sua madre, e di due prelati che i rispettivi vescovi ritennero particolarmente idonei a gestire un lavoro clandestino e rischioso.
Per sostenerne l’incompletezza, l’imprecisione o l’erroneità, occorre indicare con esattezza cos’è che non va in esse, perché non va, e perché è potuta accadere tale parzialità/sbadatezza/errore, naturalmente utilizzando le necessarie professionalità e deontologia.
Sinora ciò non è stato fatto.
Io continuo a provare profondo rispetto per l’opera di Mario Finzi.
PS. In questo breve scritto non ho richiamato l’azione parallela di fornitura di documenti falsi a Firenze (e loro redistribuzione in regione) attuata dall’ebreo pisano Giorgio Nissim e dalla rete fiorentina del Partito d’Azione, entrambe già menzionate nel mio articolo sopra citato.
PPS. Per la presa in carico dei soccorsi da parte delle curie di Genova e Firenze e di padri cappuccini a Roma, nel settembre-ottobre 1943, cfr. Michele Sarfatti, Italia, autunno 1943: il passaggio di gestione del soccorso alle vittime della Shoah, in “Quaderni di storia”, a. XLIX, n. 98 (luglio-dicembre 2023), pp. 207-236.