Razzisti per ordine superiore
“Date le spoliazioni subite — riferì il prefetto nell’autunno 1945 —, le condizioni economiche della maggior parte della popolazione ebraica di Ancona e circoscrizione non è [sic] ancora soddisfacente. Si notano sintomi di ripresa specialmente nell’ambiente commerciale, ma il ceto impiegatizio ed i lavoratori in genere risentono grandemente dei disagi e dei danni materiali subiti a causa della persecuzione (case saccheggiate o distrutte ed impossibilità a ricomprare il necessario per vivere meno che modestamente o di trovare una stanza dove poter abitare per riprendere la normale attività). È logica conseguenza di questo stato di cose un abbassamento ed una depressione del morale di chi si sia venuto a trovare in questa situazione”. Per il prefetto di Livorno, la situazione morale era “generalmente buona”, mentre quella economica “assai disagiata, per il fatto che la massima parte delle famiglie hanno perduto la casa, con quanto è necessario alle più elementari esigenze della vita”. Le descrizioni della “situazione economica e morale attuale” degli ebrei (cioè della loro situazione dopo la Liberazione) inviate a Roma dagli altri prefetti nell’autunno 1945 erano grosso modo similari e componevano un quadro sostanzialmente fedele alla realtà; in effetti uno dei principali compiti dei prefetti era/è quello di leggere la realtà locale (secondo parametri per metà governativi e per metà tecnico-fotografici).
Anche relativamente al periodo della Shoah i prefetti descrivono spicchi della realtà effettiva, pur attribuendo gli arresti ai soli tedeschi o (più raramente) anche alle autorità locali italiane, che però eseguivano — la precisazione in questo caso è ricorrente — “ordini superiori”. A Genova, ad esempio, “molto prima che il governo della repubblica sociale italiana avesse emanato la nuova legge sulla razza, i tedeschi compievano già contro gli ebrei quanto formava oggetto della legge di Norimberga: arresti e deportazioni, espoliazione dei beni e occupazione delle stesse case degli ebrei. Le autorità italiane in questa provincia si astennero dal perseguire gli ebrei e dal compiere opera vessatoria contro di loro, salvo l’asportazione di mobili prelevati negli appartamenti di ebrei rimasti abbandonati per l’arresto e deportazione dei proprietari”.
E prima della Shoah cosa era accaduto agli ebrei? Qui la lettura delle risposte inviate dai prefetti al questionario diramato dal Ministero dell’Interno il 21 settembre 1945 si fa quanto mai interessante. Scopriamo così che ad Asti “la legge sulla razza è stata applicata in questa provincia con particolare longanimità e comprensione, tenuto anche conto che i pochi ebrei qui residenti appartengono massimamente a ricche famiglie che godono, quali benefattrici, la stima e la considerazione della popolazione. Pertanto non si è verificato, ad opera delle autorità locali, alcun eccesso di zelo nella esecuzione degli ordini superiori, anzi, ogni accorgimento è stato adoperato per lenire le sofferenze morali e materiali degli ebrei”; che a Bologna “le leggi razziali hanno avuto in questa provincia scarsa applicazione nei casi concreti, in quanto i cittadini e gli organi amministrativi, che avrebbero dovuto applicarle, cercarono, in quanto possibile, di mitigarne gli effetti” (fino a quando, “giunto il tedesco, coadiuvato da delatori fascisti, iniziò la vera persecuzione razziale, mettendosi alla caccia degli ebrei”); che a Firenze “le iniziative delle autorità locali nell’applicazione dei provvedimenti razziali mantennero sempre carattere esclusivamente formale” (fino a quando “il controllo delle applicazioni delle norme stesse venne avocato dalle autorità nazi-fasciste”); che a Grosseto “le leggi razziali furono applicate di mala voglia e senza alcuna acredine, ad eccezione di alcuni casi, in Pitigliano, che si devono più che a faziosità alla troppo ligia interpretazione degli ordini che venivano dall’alto”; che a Pesaro, seppure “negli anni 1939 e 1940 le istruzioni emanate contro gli ebrei dal governo fascista furono sempre più restrittive, (…) gli uffici preposti per l’esecuzione di tali provvedimenti riuscirono, con vari accorgimenti, a mitigarne gli effetti deleteri e spesso ad ometterne l’applicazione nonostante l’occhio vigile della federazione fascista e dell’ufficio politico della milizia”; che a Teramo “la nostra legge sulla razza trovò qui scarsa applicazione nei singoli casi concreti, ed il popolo tutto e la quasi totalità degli organi amministrativi che avrebbero dovuto applicarla gareggiarono per sabotarla completamente o, per lo meno, per mitigarne al massimo gli effetti”. Bari addirittura assicura che “anche gli organi di polizia erano ostili verso le leggi razziali e tale ostilità si concretava nel sabotaggio sistematico dei provvedimenti di esecuzione relativi e nel suggerire agli interessati i cavilli procedurali onde sfuggire al rigore delle leggi”. Rarissime invece sono le segnalazioni di “autorità locali che non si mostrarono moderate” (Ferrara).
Insomma, tralasciando qui il periodo 1943–1945, nel 1938–1943 gli italiani ebrei sarebbero stati o non-perseguitati o perseguitati-pochino-pochino-tanto-per-tener-buono-Mussolini, unico ma mai nominato persecutore. Ne deriva anche che il dittatore non sarebbe stato un dittatore, lo stato fascista non sarebbe stato uno stato di polizia, la vicenda delle leggi antiebraiche sarebbe stata la riprova del fatto che nella seconda metà degli anni Trenta il regime (alla faccia di tutto l’odierno dibattito storiografico) sarebbe stato nel pieno degli “anni del dissenso”, a partire proprio dagli alti funzionari del Ministero dell’Interno (retto dal “non dittatore” Mussolini).
E così i prefetti dell’Italia non più fascista si trovarono impegnati nella costruzione di un “passato ufficiale nazionale” diverso dal “passato materiale”.
Tuttavia il fascicolo documentario dell’Archivio Centrale dello Stato (Direzione generale della pubblica sicurezza, A5G-IIg.m. (1944–1948), b. 3, fasc. “Rimpatrio degli ebrei italiani deportati in Germania”) rivela che non si trattava esattamente di farina del loro sacco. Era stato infatti lo stesso Ministero dell’Interno non più fascista ad avvertire i prefetti che il rappresentante diplomatico italiano in Belgio, trasmettendo a Roma il questionario sulle persecuzioni antiebraiche in Italia pervenutogli da una giornalista, aveva precisato:
Naturalmente, nel parlare con la signorina Lachin [la giornalista], ho messo in rilievo il fatto che la nostra legge sulla razza non solo aveva trovato una scarsa applicazione nei singoli casi concreti, ma il popolo tutto e la quasi totalità degli organi amministrativi che avrebbero dovuto applicarla avevano invece gareggiato per sabotarla completamente o, per lo meno, per mitigarne al massimo gli effetti. (…) Sarei grato a codesto Ministero di fare nettamente risaltare che le iniziative italiane in materia di razza non solo non erano spontanee, ma che il loro carattere formale cessò unicamente quando gli invasori germanici estesero direttamente il loro controllo all’applicazione delle misure antisemite.
E il Ministero dell’Interno così sollecitò i prefetti:
Si prega di voler cortesemente mettere in grado questo Ministero di dare una risposta alla citata R[egia] Rappresentanza.
(il corsivo è mio)
Mentre debbo correggere qui stesso una mia soprastante troppo drastica affermazione (scrivendo “autorità nazi-fasciste” il prefetto di Firenze forse volle discostarsi dalle direttive ministeriali), desidero avvertire che questa vicenda deve essere meditata con grande attenzione. Intendiamoci bene: l’Italia (ovvero il nostro Paese) agì in tal modo per difendere sul piano diplomatico interessi forse legittimi (pezzi di territorio, penali di guerra, ecc.). Ma il fine comunque non giustifica il mezzo: agendo in tal modo, i suddetti rappresentanti e dirigenti dell’Italia postfascista hanno devastato la consapevolezza, la memoria e la storia della persecuzione. Hanno violentato gli (ex) perseguitati. Hanno negato un passato.